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Le implosioni di Faceboom: vite incatenate a Trieste

da Glam Art 

Sabato 14 aprile, alle ore 19, GLAM ART IN PRIMOPIANO, Centro Culturale e di Esposizioni artistiche (Trieste – Capo di Piazza Gianni Bartoli, 1) ospita un incontro con Paola Bottero, autrice di “Faceboom – vite incatenate ai tempi dei social” (Sabbiarossa Edizioni), giunto alla seconda edizione dopo cinque ristampe.

Paola Bottero, giornalista esperta di comunicazione pubblica, scrittrice ed editrice, già autrice di cinque libri e coautrice di altri due, è nata a Torino ma vive tra Roma e Reggio Calabria, sperimentando e contaminando i mondi lavorativi e sociali in cui si muove. L’incontro-intervista sarà condotto da Franco Rosso, che anticipa come Faceboom si riveli come uno spaccato della società dell’apparire, che poco spazio lascia a valori e sentimenti. Ben prima della nascita dei social che oggi sembrano dettare il ritmo della società occidentale, Bukowski aveva affermato La gente non ha bisogno d’affetto. Quello di cui ha bisogno è il successo, in una forma o nell’altra. Una frase anticipatrice di una realtà che riconosciamo in questo libro, nel quale attraverso 18 racconti la Bottero fotografa un’Italia sempre diversa e sempre uguale, in cui regna l’assenza d’amore, interpretata da una serie di personaggi con nessuna vita vera, dove la realtà si manifesta come una implosione verso il nulla.

Diciotto vite che si dipanano tra chat e commenti ai ritmi dei social, i cui protagonisti si pretendono assolti da ogni tipo di legame che non sia quello dell’effimero e dove gli altri sono specchi su cui far risaltare le proprie vacue virtù e la propria inconsistente eccezionalità: per poi rimanere soli. Nessuna manifestazione di vita vera, niente oltre l’on line, inseguendo di fatto l’antidoto alla solitudine: il successo immediato, anche solo in forma di like.

Buon 2018 di amore e letture

Non servivano i dati Istat sulla produzione e sulla lettura riferiti al 2016 per comprendere a che punto sta la nostra Calabria. Il numero di inediti (o già editi in self publishing: per molti aspiranti scrittori è la stessa identica cosa) che ci arrivano quotidianamente via mail è impressionante: sono oltre mille proposte l’anno. Davvero troppe, soprattutto per un piccola casa editrice indipendente come la nostra.

Che in Calabria il numero di persone che scrivono sia ben superiore a quello di chi legge è un dato di fatto incontrovertibile. Parla chiaro il triste primato negativo fotografato dall’Istat del 25,1% riferito alla percentuale di persone (superiori ai 6 anni) che nel 2016 hanno letto almeno un libro per motivi non strettamente scolastici a professionali: 3 calabresi su 4 non hanno aperto un libro neppure per sbaglio. O forse lo hanno fatto per farsi autografare la copia acquistata in favore di selfie. Perché in effetti alcuni libri fanno il tutto esaurito nelle librerie, ma evidentemente la loro vita termina appena postata la foto ricordo della presentazione sui social.

Lo confessiamo: avendo deciso ab origine che la nostra non sarebbe mai stata una casa editrice a pagamento, ma quello che dovrebbe essere ogni realtà nel mondo vasto dell’editoria – vale a dire uno spazio libero e indipendente per permettere di aprire nuovi varchi capaci di incrinare un’editoria sempre più omologata e stereotipata –, ci siamo fermati, per un po’. Abbiamo continuato a ristampare i nostri granelli, che per fortuna non hanno mai smesso di interessare i lettori (pochi ma buoni) di Calabria (e non), ma nessun nuovo titolo. E non solo perché non abbiamo trovato tra i troppi manoscritti che ci continuavano ad arrivare qualcosa che davvero valesse la pena di dare alle stampe: molte librerie chiudevano, molte non riuscivano a pagare i libri già venduti, in giro si vedevano più pantomime di scrittura, esercizi di ego piuttosto che libri degni di essere chiamati tali.
Ora è arrivato il tempo di riprendere da dove ci siamo fermati. Da qualche mese abbiamo riaperto la nostra ricerca, abbiamo messo a punto il restyling della nostra veste grafica, stiamo selezionando tra i manoscritti quelli che entreranno nel nostro catalogo, abbiamo già iniziato con le prime stampe. In questo ultimo giorno del 2017 non possiamo che pensare alle tante splendide letture che stiamo programmando per il 2018. Con la speranza di riuscire a combattere un tendenza all’ignavia e all’abbandono di cultura così ben evidente dai dati Istat. Che dobbiamo continuare ad avere ben presenti, ogni giorno. E non solo quello successivo alla loro pubblicazione.

Vi aspettiamo nelle librerie. Buon 2018 di letture.

Stare sui social vale 200 libri non letti all’anno

Pagina99, quotidiano di inchieste, economie e cultura, ha ripreso i calcoli di un giornalista di Quartz, che ha deciso di sommare il tempo trascorso sui social. Una somma che fa massa: vale 200 libri non letti, nell’arco di un anno. Se spegnessimo smartphone, tablet e tv per dedicarci ai libri potremmo leggere molto di più, e moltiplicare in modo esponenziale la media che pone i lettori forti a 10 libri letti l’anno. Certo, i conti sono fatti sul modello americano. Ma vale la pena di esaminarli.

Charles Chu, autore dell’articolo, fornisce calcolatrice alla mano tutti i passaggi per spiegare il ragionamento. Partendo da un presupposto: l’americano medio legge tra le 200 e le 400 parole al minuto. Assumendo che un libro di non-fiction è composto da circa 50 mila parole, 200 libri vuol dire 10 milioni di parole. Prendendo il lettore più veloce della nostra media, quello che macina 400 parole al minuto, per leggere quei 10 milioni di parole serviranno 25 mila minuti. Vale a dire, 417 ore. Per farci un’idea, basti pensare che un anno solare è composto da 8.760 ore. Se anche dessimo per scontato che ciascuno di noi trascorre la metà delle proprie giornate a dormire (ipotesi ottimistica e per eccesso, dunque), resterebbero 4.380 ore.

Considerando un impiegato medio, con un orario di lavoro di 40 ore settimanali, abbiamo 1.920 ore all’anno trascorse in ufficio. Se sottraiamo queste al totale delle ore di veglia, restano comunque 2.460 ore libere. Sicuri di non riuscire a ritagliarvene 417 – cioè meno di un quinto – per dedicarvi alla lettura? Se questi calcoli da soli non sono sufficienti a convincervi, torniamo all’articolo di Quartz, secondo cui un americano medio spende 608 ore all’anno sui social media: persino di più di quante ne occorrerebbero per legge quei famosi 200 libri. Per non parlare della tv: di fronte al piccolo schermo si trascorrono in media addirittura 1.642 ore, cioè oltre la metà del tempo libero totale extra lavoro, almeno stando al nostro piccolo calcolo. Di più: nel totale delle ore (2.250) impiegate davanti agli schermi di pc, tablet, smartphone e televisore potremmo leggere addirittura mille libri in un anno.

Ma sappiamo tutti come impieghiamo il nostro tempo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Non tutti possono essere scrittori

Non basta saper cucinare un piatto di pasta e un rollè pronto comprato dal macellaio per diventare un cuoco gourmet. Non basta divertirsi il sabato sera con il karaoke per diventare un cantante da Music Awards. Non basta avere uno strumento in casa per diventare musicisti. Non basta una comparsata in qualche emittente televisiva, locale o nazionale, per diventare conduttori di Sanremo. Non basta avere una telecamera per diventare registi o attori professionisti. Non basta disquisire di calcio nel fine settimana per diventare allenatori. Non basta avere sempre in mano uno smartphone con la frenesia dello scatto multiplo per diventare fotografi professionisti. Non basta ricopiare aforismi sui social per essere persone di cultura. Non basta avere l’ossessione compulsiva da tastiera riversando in blog più o meno consolidati comunicati stampa, notizie, commenti e testi di vario genere e varia provenienza per diventare giornalisti da Pulitzer. E non basta, infine, scrivere per diventare scrittori.

E invece. E invece ci siamo trasformati in un popolo di cuochi, cantanti, registi, attori, allenatori, fotografi, giornalisti, opinionisti, scrittori. Ce lo diciamo da soli. E ci crediamo. Perché è tutto a portata di mano: se la commessa o lo studente possono diventare personaggi nazionali a colpi di talent show, allora chiunque può definirsi come meglio crede. Chiunque può trasformare in (presunta) professione il proprio sogno. Il talent al posto del talento, come l’impegno social al posto di quello sociale. E così via, con infinite declinazioni di orwelliana memoria.

Ci porterebbero molto lontano le riflessioni su questo “tramonto di un mondo” di cui scriveva Corrado Alvaro. In un luogo dove in pochi (forse pochissimi) vorrebbero-saprebbero arrivare. Ma non è questo il tempo, né il luogo.

Qui, oggi, mentre lavoriamo con la seconda scrematura della marea di manoscritti giunti nell’ultimo trimestre, per poter arrivare ad una rosa di “papabili” editi, siamo stati assaliti da una doppia certezza.
La prima: pubblicare non è un dovere categorico delle case editrici. O più esattamente, delle vere case editrici. Perché quelle a pagamento, dichiarato o no (anche l’obbligo dell’acquisto di un tot numero di copie è editoria a pagamento travestita), ce l’hanno ovviamente come dovere: di sopravvivenza commerciale, esattamente come le tipografie, che campano finché stampano.
La seconda: pubblicare non è un diritto degli aspiranti scrittori. Perché non tutti lo sono. Non tutti lo possono essere. E non è vero che volere è potere, con buona pace del nostro grandissimo Alfieri. Certo, questa seconda certezza è molto più difficile da dimostrare come reale. Perché in un modo o in un altro chi vuole pubblicare – per poter inserire”scrittore” nel proprio profilo social o sotto le locandine di fantomatici happening letterari – pubblica. Anzi, ha una vasta possibilità di scelta: dal self publishing ai “concorsi” per inediti, passando attraverso il mondo vasto dell’editoria a pagamento. E se poi si trova cartoni pieni di volumi in casa, tra amici, parenti e conoscenti, in qualche modo può anche riuscire a contenere la spesa.
La colpa è nostra. Proprio così: la colpa è di noi editori (aspiranti, sedicenti o reali lo dirà il tempo), che non andiamo troppo per il sottile anche se siamo grandi ed affermati. La colpa è anche degli autori (aspiranti, sedicenti o reali lo dirà il tempo, anche in questo caso), che quando si sono fatti un nome che vende a prescindere dal prodotto (scrivere titolo è già dare troppo al tipo di pubblicazione proposta) pensano di poter definire libro anche il diario con pagine bianche vendute a lettori che loro stessi trasformano in autori. La colpa è del fatto che si legge sempre meno, e purtroppo molti dei (pochissimi) libri acquistati servono come base per l’autografo o il selfie, per poi essere abbandonati intonsi (nelle librerie quando va bene, a tenere aperte porte o in cantina quando va meno bene).

E a proposito di leggere. Ci rimettiamo a farlo. Perché è il nostro lavoro. Ma prima ancora perché è la nostra passione. E ci piacciono i bei libri. Ma per trovarli bisogna leggere tanti inediti. Individuare quelli che vale la pena di rileggere, aiutarli ad uscire dal bozzolo, seguirli passo passo fino a quando prendono forma e si mettono in gioco con i lettori. Lʼeditoria non è un gioco, è un lavoro duro e lungo. Ma che può dare, che dà, grandissime soddisfazioni. Quasi come leggere.

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