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sui social si ricomincia a cinguettare

La prima trimestrale del 2019 di Twitter fa ben sperare Jack Dorsey: gli utenti sono 330 milioni, i dati parlano di rilancio.
Il social che sembrava ormai prossimo alla fine, con una chiusura del 2018 con numeri poco entusiasmanti, nei primi tre mesi 2019 ha portato ricavi di 787 milioni di dollari: + 18% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (665 milioni), + 9 milioni di utenti rispetto a dicembre 2018. Dato, quest’ultimo, di non poco peso: sono molti 3 milioni in più di utenti al mese per una piattaforma che lotta da sempre contro account bot latenti, fake e verso contenuti di odio e violenti, procedendo mensilmente alla loro cancellazione. Numeri importanti, quelli degli account di cui Twitter si è liberata: si è arrivati a 70 milioni di account sospesi in 2 mesi, come reso noto a luglio 2018.

E dunque vengono meno quelle che in social mkt sembravano certezze, almeno fino a pochi mesi fa: accanto al lavoro su Instagram e Facebook bisognerà ricominciare a prevedere anche quello su Twitter.

3 italiani su 4 on line

42,3 milioni gli italiani online a marzo 2019: Audiweb ha reso noti gli ultimi dati sull’audience on line in Italia. E i dati parlano chiaro: il 70,8% della popolazione dai 2 anni in su – 3 italiani su 4 – a marzo sono stati online per 87 ore e 19 minuti (3 giorni e 15 ore). L’utilizzo di internet nel giorno medio a marzo vede coinvolti 33,3 milioni di individui, online principalmente da Smartphone: 28,6 milioni di utenti online si sono collegati almeno una volta nel giorno medio da Smartphone, l’87% dei maggiorenni online, collegati in media per 3 ore e 24 minuti per persona. 

Chi ha navigato di più nel giorno medio a marzo? La metà degli uomini (55,6%, 16,6 milioni) e delle donne (55%, 16,7 milioni); gli under 45 hanno navigato almeno nell’80% dei casi, con l’82,8% dei 18-24enni online nel giorno medio (3,6 milioni), l’83,9% dei 25-34enni (5,7 milioni) e l’80,3% dei 35-44enni (7,2 milioni). Assidui fruitori della rete anche i 45-54enni, online nel 78% dei casi (7,5 milioni), e parte dei 55-64enni con il 66,5% degli individui di questa fascia d’età online nel giorno medio (5,4 milioni). La fruizione “quotidiana” da Smartphone ha raggiunto almeno il 70% della popolazione di 18-54 anni, con la quota più elevata per i 25-34enni (il 78% degli individui di questa fascia, pari a 5,3 milioni), continuando con il 75,6% dei 18-24enni (3,3 milioni), il 71,2% dei 35-44enni (6,4 milioni) e il 70,6% dei 45-54enni (6,7 milioni).

Circa l’87% dei maggiorenni online ha navigato da Smartphone almeno una volta nel giorno medio e l’84,5% lo ha fatto tramite applicazioni mobile. Proporzione che si riscontra anche nella distribuzione del tempo online da cui emerge che il 71,3% del tempo totale online è generato dalla navigazione tramite applicazioni installate sullo Smartphone.

siamo nel bel mezzo di un overload informativo?

I new media hanno stravolto la gerarchia comunicazionale, che non è più verticale (tipica dei media tradizionali – stampa e televisione), ma è diventata orizzontale, in una “parità” di fonti che confonde emittente e ricevente e crea un overload, un sovraccarico di informazione.

La comunicazione a due vie, alla base dell’interazione, è stata cancellata, come l’ascolto e il flusso di messaggi tra emittente e ricevente.

Gli studenti di Teoria e tecniche delle analisi di mercato e di Comunicazione e innovazione nelle pubbliche amministrazioni dell’Università di Napoli hanno fatto una ricerca per comprendere sia i criteri di scelta delle fonti degli utenti italiani, sia il grado di influenza esercitato dai media digitali. Il confine tra emittente e destinatario del messaggio diventa labile: non si è più semplicemente spettatori passivi, ma si diventa protagonisti della narrazione informativa, giungendo ad una «autocomposizione delle fonti» che porta ad una «disintermediazione digitale». Internet, il più diffuso mezzo di partecipazione all’informazione, ha sparigliato le carte verso il basso: permettendo di farsi un’opinione in base alle prime fonti trovate ed impedendo di comprendere l’autorevolezza o meno di un contenuto, tra bufale, fake news e confusione da overload, ha portato a quella che può essere definita “ignoranza 2.0“.

Rispetto all’attesa del telegiornale delle emittenti televisive – salvo, naturalmente, edizioni straordinarie dell’ultim’ora – e gli approfondimenti dei quotidiani cartacei del giorno seguente, un punto a favore dei media sociali è la rapidità di diffusione di contenuti e l’immediata disponibilità di notizie. «I media digitali hanno realmente disciolto la comunicazione di massa in un numero infinito di bit disponibili a tutti coloro che hanno accesso alla rete», si legge nella ricerca. Ma quegli stessi media stanno portando il mondo dell’informazione verso l’era dell’accumulo e dell’overload, rendendo obsoleti gli strumenti tradizionali di diffusione di contenuti e sovraccarica l’etere di messaggi che si contendono l’attenzione degli utenti a causa dell’impossibilità di porre dei filtri.

Il rischio è che gli algoritmi dei social network generino un soft power che influenza gli utenti, nell’errata convinzione di compiere delle scelte, mentre in realtà le azioni vengono effettuate in uno stato di assuefazione e dipendenza, con contenuti selezionati in base alle proprie preferenze espresse in precedenza. Il tempo impiegato nell’utilizzo dei social viene scandito da gesti automatizzati, dalla continua necessità di essere esposti a informazioni e di creare contenuti – dalle foto, agli stati, alle GIF – alimentata dalla volontà di migliorare la propria reputazione online attraverso apprezzamenti, ricondivisioni e commenti. Per gli utenti è sempre più difficile riuscire a individuare l’autorevolezza delle fonti oppure a modificare la propria opinione a causa dell’overload di informazione digitale. E così è il livello di attenzione a venire meno, in un contesto in cui non va più conquistata, ma costruita in base all’architettura del medium di riferimento, divenendo così subordinati alle tecnologie: «chiunque, anche soggetti privi di ogni competenza culturale e tecnologica, viene messo in condizione di pubblicare, di esprimere la sua opinione, soprattutto emotiva». È inevitabile che gli utenti valutino con maggiore attenzione contenuti che reputano interessanti, tendendo a trascurare la credibilità della fonte e gli aspetti più formali, quali lo stile dell’informazione diffusa. strategy DADO

A tal proposito gioca un ruolo decisivo l’emotional sharing, la condivisione emotiva, determinata dal ricorso, da parte di chi divulga i messaggi, a «forme e termini emotigeni» che fanno leva sull’empatia con gli utenti: sarà rilevante lo studio dell’apprezzamento dei contenuti condivisi sui social network, così come il ricorso ad influencer, «filtri della nostra attenzione, delle nostre emozioni, delle nostre labili opinioni» (in base alla reputazione guadagnata o ottenuta orientano in maniera determinante l’opinione e il consenso dei fruitori verso determinati contenuti).
Quella che può sembrare una forma di democratizzazione della cultura non è altro che il proliferare di «folle emotive», aggregazioni di individui spinti dall’omofilia nei confronti di qualcosa che tendono a rifuggire da tutto ciò che è diverso e incoerente rispetto alla propria visione e alla propria opinione. La necessità di ‘essere’ costantemente in rete, il bisogno continuo di interfacciarsi attraverso un display, l’aggregazione e la condivisione emotiva, la ricerca di incremento e miglioramento della propria reputazione online non fanno altro che modificare i processi di conoscenza, impedendo la realizzazione – forse utopica – di una comunità beninformata.

Dalla ricerca emerge chiaramente che «l’individuo incomincia a formare una ipersensibilità, seppur non ancora del tutto espressa, che inizia a porre in discussione la fiducia e la credibilità delle fonti informative, ma è condizionata dal proprio echo chamber e dall’influenza delle proprie reti omofiliache. Questa nuova soggettività biomediatica fa apparire gli individui come su delle zattere violentemente sospinte dalle correnti informazionali, che solo a volte riescono a surfare, capendone limiti, criticità e problematicità», mentre molto più spesso si perdono nella disinformazione totale.

Non possedere per essere? Ecco la vera digitalizzazione dell’impresa

Quali sono le più grandi compagnie al mondo ? Quelle senza beni, né magazzini, né scorte, ma che sono riuscite a trasformarsi in quest’era digitale. Qualche esempio?

  • La più grande compagnia di Taxy al mondo non possiede macchine (#Uber)
  • La più grande impresa di alloggi non possiede immobili (#Airbnb)
  • La banca che cresce più rapida al mondo non possiede denaro reale (#Bitcoin)
  • La maggiore impresa di comunicazioni tra utenti non possiede infrastrutture (#Skype #WhatsApp)
  • Il maggior rivenditore al mondo non ha inventario né magazzino (#Alibaba)
  • Il principale mezzo di notizie al mondo non ha redattori (#Twitter)
  • La maggiore piattaforma di film non ha cinema (#Netflix)
  • La maggiore stazione di trasmissioni radio non ha né microfoni né emittenti (#Spotify)
  • I maggiori venditori di software al mondo non programmano (#Google, #Apple)

La trasformazione digitale sta avvenendo adesso. O forse è già avvenuta. Fare impresa oggi è davvero più semplice? O oggi le strategie di impresa sono legate a doppio filo con le strategie di comunicazione? Qualche domanda occorre iniziare a farsela. E comprendere che non basta avere un computer per essere giornalista, comunicatore, artista, grafico, creativo, fotografo, musicista, scrittore, regista, etc. Servono idee, connessioni veloci e, soprattutto, competenze e professionalità.

Lurka e non posta: il cliente migliore si cattura con il WOM

Una volta c’era il passaparola. Si acquistava un prodotto/servizio/sogno/bisogno perché altri lo avevano già fatto e ne erano rimasti soddisfatti. Poi è arrivata l’era consumer, quella in cui la pubblicità era l’anima del commercio, in cui le tipografie e i grafici si improvvisavano strateghi di mkt e comunicazione, in cui la carta si sprecava e imbrattava ovunque.
Indigestione dopo indigestione, sovraesposizione dopo sovraesposizione, siamo arrivati a un punto zero (o meglio 2.0) in cui le regole sono state completamente ribaltate. Per poi tornare quelle di un tempo, le più antiche.

Oggi la nuova frontiera del marketing non può fare a meno del community management, parte attiva in tutte le campagne di buzz marketing, tecnica non convenzionale basata sul passaparola in rete (WOM, word of mouth) con lo scopo di raggiungere nel minor tempo possibile (e nel modo più efficace) il target preidentificato.
Una campagna promozionale che si rispetti non può ignorare la rete, la community, i social: deve integrare ed integrarsi ai nuovi linguaggi che corrono alla stessa velocità del consumismo. Chi lo ha capito prima degli altri ha messo a punto una campagna capace di cancellare ogni influenza negativa dell’informazione globalizzata. Un esempio per tutti è Amazon, il colosso salito agli onori della cronaca per le “regole di ingaggio” imposte ai dipendenti, che nello stesso momento in cui licenzia migliaia di persone e combatte con i sindacati lancia una campagna meravigliosa, creando una fiction del WOM. Ce l’avete presente, no? Chi non ha letto, prima di acquistare un prodotto su Amazon, le recensioni? E chi non ha scritto commenti duri quando non è rimasto soddisfatto dell’acquisto? La campagna mkt di Amazon è tanto semplice quanto efficace: ricostruisce situazioni tipo di un momento familiare (ad esempio lo skateboard e il gioco padre/figlio), ruotando attorno ad un commento costruito ad hoc, ma terribilmente vero e credibile. Eccolo, il vecchio passaparola che diventa WOM, buzz mkt. E sarà efficace grazie, soprattutto, ai lurker.

No, non sono voyeur. Quasi, ma non proprio: sono la massa, quella cui ci dobbiamo rivolgere se facciamo comunicazione: sono quelli che leggono ma non intervengono, non rendono palese la propria presenza perché non lo reputano necessario o perché non lo desiderano. Leggono tutto, anche il modo in cui si gestiscono gli hater. Sanno valutare il grado di preparazione del community manager, la capacità di gestire gli iperattivi, di problem solving, di gestione di informazioni, relazioni, conflitti, strumenti di interazione.
Sono presenti ma non postano. E per questo spesso gli altri utenti non sono consapevoli della loro esistenza.
No, non sono neppure spioni. Anzi. La netiquette (ma anche il buonsenso e un briciolo di amor proprio) richiederebbe un periodo di lurking (osservare da dietro le quinte, ascoltare senza parlare prima di iniziare a parlare), di osservazione, per farsi un’idea delle “regole della casa”, per comprendere di cosa si stia trattando, chi ha detto cosa, quali sono i modi e i linguaggi. Certo, è molto più facile postare come se non ci fosse un domani, con l’unica ansia di pubblicare la propria opinione. Per fortuna si lurka più di quanto si posti: il numero di utenti/clienti 2.0 che osserva in silenzio è molto più alto: a loro si rivolge il buzz mkt. Mentre gli altri, in numero ben inferiore, fanno massa inondando le proprie giornate – e social, chat, forum etc – di post.

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Connessioni e sconnessioni: qual è la realtà?

 

Il web connette al mondo globale o sconnette dalla realtà? Una domanda tanto semplice quanto urgente, che don Giovanni Zampaglione, illuminato e attivissimo parroco di Marina di San Lorenzo (Rc), ha deciso di porre alla base dell’incontro che si terrà sabato 13 gennaio 2018 nella sala convegni dell’Access Point di Roghudi.

Don Zampaglione ha coinvolto la dirigente scolastica dell’IC De Amicis, Antonella Borrello, e l’amministrazione comunale guidata dal sindaco Pierpaolo Zavettieri, per una mattinata di riflessioni con i giovani studenti.

Toccherà al giornalista Giuseppe Toscano moderare gli interventi del garante per l’infanzia Antonio Marziale, dell’assessore alla cultura Leonella Stellitano, dello psicologo Sandro Autelitano, della giornalista e scrittrice Paola Bottero, che ha studiato, narrato, denunciato ed esaminato il fenomeno della deriva personale “in favore di social” con Faceboom, raccolta di “18 racconti incatenati al tempo dei social” pubblicata a fine 2015 da sabbiarossa edizioni e già alla quinta ristampa (è in uscita una nuova edizione).

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Internet è rotto. Il fondatore di Twitter: ci vogliono 20 anni per riaggiustarlo

Si chiama Evan Williams, ed è, tra l’altro, il fondatore di Twitter.
Sabato scorso in un’intervista al New York Times ha spiegato perché “The Internet is broken”, il web è rotto o, quantomeno, spezzato. «Favorisce gli estremi. Pensavo che il mondo sarebbe diventato automaticamente migliore se avessimo dato a tutti la possibilità di esprimersi. Mi sbagliavo». Anche lui come Eco contro la “legione di imbecilli” cui i social ed il web in generale avrebbero dato parola? O invece l’esatto contrario?

Evan Williams cresce nella Silicon Valley: nel 1999 fonda la piattaforma Blogger, una delle prime che ha consentito a chiunque di scrivere e pubblicare in rete; nel 2006 lancia Twitter; nel 2012 crea Medium, piattaforma minimalista di parole, con pochissime immagini, che cerca di risalire la china di sole immagini e video tanto in voga con Snapchat. Nel 2017 la certezza: «The Internet is broken», Internet non funziona più. Di più: «le cose continuano a peggiorare». Esempi? Quanti ne volete: Facebook che trasmette omicidi, Twitter egemonizzato da troll, le fake news più credibili e virali che mai: «Un tempo pensavo che, se avessimo dato a tutti la possibilità di esprimersi liberamente e scambiarsi idee e informazioni, il mondo sarebbe diventato automaticamente un posto migliore. Mi sbagliavo».
Perché Internet «premia gli estremi. Se vedi un incidente mentre stai guidando, ovviamente lo osservi: e tutti, intorno a te, lo fanno. Internet interpreta un comportamento simile come il fatto che tutti vogliano vedere incidenti: e fa in modo che gli vengano forniti. Il problema è che non tutti siamo persone perbene. Gli umani sono umani. Non è un caso che sulle porte delle nostre case ci siano serrature. E invece, Internet è iniziato senza pensare che avremmo dovuto replicare questo schema, online».

Un impatto immenso anche per il mondo dell’editoria, dove l’opera di Williams ha avuto implicazioni paragonabili a quella di Gutenberg. Gli sforzi dei giganti del web per sistemare quel che sembra un «errore di sistema» sono sempre di più: Google sta cercando di modificare i suoi algoritmi e di monitorare esiti non appropriati di ricerche; Facebook sta assumendo migliaia di persone per monitorare in tempo reale i contenuti postati da quasi due miliardi di utenti.
Un lavoro lungo nella speranza di invertire la rotta. «Credo» dice Williams «che riusciremo a sistemare questa situazione. Ma il lavoro è appena cominciato. Vent’anni non sono un periodo troppo lungo, per modificare i meccanismi di funzionamento della società».

A noi scrittori non restano che le parole per sovvertire la realtà: #GabrieleLibero

di Giuseppe Licastro

La vicenda di Gabriele del Grande, fondatore del noto blog Fortress Europe, suscita senza dubbio preoccupazione e sconcerto. Il giornalista, lo scrittore, il documentarista è stato fermato in Turchia, secondo quanto riportato da una nota della Farnesina, perché si trovava in una zona di tale Paese ove non è consentito l’accesso. Detenuto attualmente a Mugla, è stato privato dell’assistenza di un legale.

Da tenere ben presente in questo complesso e delicato “contesto” che la Turchia, secondo quanto sostenuto da Amnesty International, ha adottato (da tempo) un regime particolarmente restrittivo nei confronti dei giornalisti: i racconti appunto raccolti, appaiono davvero emblematici delle condizioni di detenzione dei giornalisti…

Lo spirito che caratterizza Gabriele Del Grande, significativa espressione di libertà dell’informazione, sembrerebbe dunque rappresentare una temibile minaccia per la Turchia. Occorre dunque unirsi al coro che da più parti invoca la liberazione di Gabriele Del Grande, significativa espressione di libertà dell’informazione (repetita iuvant):

«A noi scrittori non restano che le parole per sovvertire la realtà. Io ho scelto le parole del mio amato Mediterraneo, il Mare di Mezzo.
Ho scelto le storie dei padri di Annaba e quelle dei padrini di Tunisi. Le storie delle diaspore di due ex colonie italiane come l’Eritrea e la Somalia negli anni dei respingimenti in Libia e quelle dei pescatori del Canale di Sicilia. Le storie degli italianitravirgolette che l’Italia manda via e quelle delle tante Italie nate senza fare rumore AilatiditaliA, nelle campagne marocchine, sul delta del Nilo e nei villaggi del Burkina Faso» (tratto dal retrofrontespizio di G. Del Grande, Il Mare di Mezzo, Roma, 2010).

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