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il Premio Elmo a Paola Bottero

Il Premio Elmo 2012 è una pietra miliare della memoria.

Rizziconi: la piazza della cultura, la piazza della mattanza

Una comunità che attraverso la cultura e l’arte vuole riappropriarsi della propria terra contro chi crede sia normale uccidere si è ritrovata a vivere nella stessa serata la speranza e l’orrore

di Paola Bottero per scirocconews

«Qui è la Calabria. In fondo all’Italia. Poco più sotto e sarebbe stato mare aperto. Mediterraneo. Costa nord dell’Africa.
La Calabria è una regione di confine. Una regione di confinati. Una regione nella quale è pericoloso avere sogni, è pericoloso programmare, è pericoloso fare.
Qualcuno dice che non è pericoloso: è superfluo. Qualcuno dice che questa terra merita solo di essere abbandonata. Qualcuno dice che qui sono tutti uguali, non vale la pena perdere tempo per capire».

Martedì 28 agosto, AD 2012. Rizziconi, interno notte.

Una piazza, davanti al Palazzo Arcuri. Ragazzi puliti, artisti molto interessanti – Gianmarco Pulimeni e Maria Concetta Policari, uniti in “Tila” – che si associano in “Piazza Dalì”, si inventano un premio, il Premio Elmo. Hanno deciso di dare anche a me la splendida ceramica con cui hanno bloccato il proprio impegno culturale nell’arte: l’elmo di San Teodoro, effige che unisce la cittadina della Piana di Gioia Tauro, centro pulsante del reggino calabrese, all’impegno. Non ho chiesto perché: ho la certezza che sia per “bianco come la vaniglia”, la mia ultima opera narrativa dedicata a Francesco Maria Inzitari, che è stato un ragazzo come loro, pieno di vita e di amore per la sua terra. Troppa vita e troppo amore, stroncati a diciott’anni, in un’altra piazzetta poco distante, a Taurianova. Era il 5 dicembre 2009. Ieri. Una vita fa.

Dopo la consegna dei premi a Federica Legato, Maria Teresa Papale, Antonia Palladino, Pasqualino Pandullo e Nadia Macrì, ottimi conduttori della serata, fanno partire un audio. Una voce maschile calda e ferma legge alcuni passaggi del mio romanzo. Ascolto in silenzio, chiedendomi se davvero non vale la pena di perdere tempo per capire. Note leggere sottolineano la perentorietà del mio scritto. Ci sono pause. Obbligano a riflettere.

«Ma io so che non sono tutti uguali. Lo so perché l’ho visto. Perché lo vedo. Perché ho imparato in fretta a capire le differenze. Non è difficile: basta saper distinguere i bianchi dai neri. E fare attenzione ai grigi. […] Lui è Francesco. Francesco Maria, all’anagrafe. Ciccio, in famiglia e per gli amici. La storia che vi voglio raccontare inizia a fine luglio e termina il cinque dicembre di due anni dopo. È la sua storia. È la mia storia. È la nostra storia».

La nostra storia. Quella che cerchiamo di raccontare per non dimenticare. Quella che ieri sera abbiamo condiviso in una piazza pulita, solare, volti e occhi sinceri di chi sa da che parte stare. Centinaia di persone unite in un “noi” necessario e improrogabile. Un noi che è l’unica declinazione possibile per cercare risposte che non arrivano mai. Un noi corale che aggiunge il disprezzo al disprezzo. La rabbia alla rabbia. Per ascoltare solo la voglia, il bisogno di cambiare.

È da poco passata la mezzanotte. Un’altra piazza, davanti alle scuole elementari. Le stesse frequentate da Francesco. Le stesse frequentate da ciascuno dei rizziconesi presenti al Premio Elmo. Armi da fuoco in attesa nel buio. Altri tre nomi destinati a entrare nell’infinito elenco della mattanza. Reno Borgese aveva 48 anni, Antonio e Francesco, i suoi figli, 27 e 21. Poco importa se si tratti di un omicidio di ‘ndrangheta o dell’azione di vili capaci di falciare vite umane come se fossero selvaggina. Sono malati di ‘ndrangheta anche loro, se pensano normale attendere nel buio della notte le proprie prede. Saremmo ciechi noi, a pensarla diversamente.
Le prime ipotesi per il triplice omicidio portano verso una lite per futili motivi. Incensurati, nessun collegamento con la ’ndrangheta. I proiettili feriscono anche il nipote 29nne, Antonino. Nessuno ha visto. Nessuno sa. Forse l’assassino, o gli assassini, continueranno a girare a piede libero, mescolandosi nella buonavita, proprio come il killer di Francesco. Forse no.

Ma per un attimo, stamattina, nel leggere le prime agenzie di stampa, ho pensato che davvero abbia ragione Roberto Galullo, quando scrive che la Calabria è una regione senza speranze. Che ha ragione Mario Congiusta, quando invita i ragazzi ad andarsene, prima che sia troppo tardi.

Il pessimismo della ragione. Ne parlavo proprio ieri sera con uno di noi, un cittadino di Rizziconi, al termine della serata. Dobbiamo fare di tutto perché prevalga ancora l’ottimismo della volontà. Noi. Noi siamo molti di più. Noi abbiamo il diritto, oltre che il dovere, di liberare questo mare immenso e pulito, che è la Calabria, dall’inchiostro della piovra che è loro. Loro, dall’altra parte della barricata, con l’arroganza di poter decidere per tutti gli altri. Loro, che cercano di sconfiggere la buonavita imprigionandola nella paura e nell’incapacità di rialzarci. Loro, che non possono vincere. Non per sempre.

Stamattina, ancora più di ieri sera, mi risuonano le parole che non sono state lette. Quelle che vengono dopo “la nostra storia”.

«Vi starete chiedendo perché io, perché lui. Me lo chiedo anche io, da allora. Perché? Nessuno finora, in questo mio oggi senza fine, fermo a quel cinque dicembre che è il mio presente e il mio futuro, ha saputo rispondere. Perché?».

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