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aumenta la fiducia dei consumatori?

Nielsen, azienda globale di misurazione e analisi su consumatori e mercati diffonde i dati sulla pubblicità aggiornati a giugno 2020 e i titoli dei media che riprendono si dividono di netto: da una parte chi sottolinea la ripresa, seppure timida. Dall’altra chi punta sui segni negativi.

Ma i primi segnali di ripresa per il mercato pubblicitario a giugno ci sono. Lo dice la Nielsen stessa: “la fase negativa del mercato degli investimenti pubblicitari mostra a giugno segnali di ripresa rispetto al trimestre marzo-aprile-maggio, che ha risentito in maniera pesante del lockdown”.
Alberto Dal Sasso, Ais managing director di Nielsen, è ancora più preciso. “L’analisi del mercato pubblicitario non evidenzia nulla che non fosse già stato previsto per l’andamento del primo semestre 2020, che chiude in doppia cifra negativa. Nel corso dell’anno sarà importante focalizzarci sulle crescite congiunturali che danno il segnale dell’andamento nel breve periodo. In questo caso, il mese di giugno è cresciuto del 20% rispetto a maggio. Seppure la stagionalità degli eventi sia parzialmente cambiata, si tratta comunque di un dato importante e indicativo dell’atteggiamento delle aziende investitrici”.

Giugno chiude con una contrazione del 15,4% (a maggio era – 41,1%), che porta la raccolta del primo semestre in calo del 22,4% rispetto allo stesso periodo del 2019.

Spiega Dal Sasso: “Viste anche le recenti dichiarazioni provenienti da più parti, e date le condizioni attuali, dovremo assistere a un secondo semestre migliore dal punto di vista degli investimenti pubblicitari. I dati Istat su giugno evidenziano un miglioramento dell’indice di fiducia dei consumatori (da 94,3 a 100,6). Un dato positivo che ci restituisce un certo ottimismo sulla ripresa degli acquisti ma non si può comunque ancora trascurare la preoccupazione di imprese e investitori, il cui indice di fiducia, pur crescendo, rimane a un livello sostanzialmente basso (da 52,7 a 65,4)”.

i dettagli della rilevazione

Nel dettaglio la tv a giugno cala del -7,9%, chiudendo il primo semestre a -22,3%. I quotidiani e i periodici nel singolo mese perdono rispettivamente il -23,3% e il -50,9% (-26,7% e -43,1% nei sei mesi). Si riduce il calo della raccolta pubblicitaria della radio: -29,5% a giugno e -37,4% nel periodo cumulato.

Per quanto riguarda internet, sulla base delle stime realizzate da Nielsen, a giugno la raccolta dell’intero universo del web advertising, comprendente search, social, classified (annunci sponsorizzati) e gli ott, segna un calo del -10,6%, e porta la perdita del semestre a -13,7% (-15,8% se si considera il solo perimetro Fcp-Assointernet). L’outdoor perde il -49,9% (-56,4% nel semestre) e il transit il -73,7% (-59,5% nel semestre). Il direct mail chiude in calo del -27% il singolo mese (-37% a gennaio – giugno).

I settori merceologici tornati a crescere a giugno sono abitazione (+25,4%), distribuzione (+16,7), gestione casa (+17,7%) e media/editoria (+9,3%). Relativamente al primo semestre si registrano solo due comparti in crescita: gestione casa (+2,4%) e enti/istituzioni (+11,2%). Tra i settori con una maggiore quota di mercato, nel singolo mese di giugno calano in particolar modo bevande/alcoolici (-38,4%), automobili (-21,1%) e farmaceutici/sanitari (-24,5%).

Sempre a causa del lockdown, nel periodo gennaio-giugno si evidenziano gli andamenti negativi di automobili, tempo libero, alimentari e turismo/viaggio che perdono rispettivamente il -37,4%, -68%, -19% e -69,1%.
Eppure, ben lo sappiamo, sarebbe proprio questo il momento di iniziare ad investire.

social al cubo

Invece di lavorare spinti sulla strategia di social media marketing, strategist ed addetti al mkt dovrebbero combinare i diversi mezzi, creando tattiche social e accedendo alla new tecnology non in modo diretto ed unicìvoco, ma mescolando carte e canali per garantire l’efficacia delle azioni.
Potrebbe essere sintetizzato così il consiglio di Forrester, società americana di ricerche di mercato che fornisce consulenza sull’impatto attuale e potenziale della tecnologia.

Forrester ha appena reso noto i risultati della sua ultima ricerca: sui social media nel 2020 si spenderanno 112 miliardi di dollari in pubblicità. Eppure gli addetti ai lavori sono insoddisfatti, rivela il sondaggio appena terminato: il 31% degli intervistati rivela di non saper dimostrare l’impatto dei social sul business.

Forrester non ha dubbi: i social disorientano gli operatori. Non è sufficiente una campagna promozionale per impattare sui social. Non basta calendarizzare una spesa, cercare una creatività accattivante e buttare là, nel mare magnum della rete, il frutto di un lavoro fine a se stesso.
In troppi hanno iniziato a lavorare sui social con aspettative irrealistiche, convinti che di un guadagno facile, di poter sbloccare grandi profitti con poca fatica. I risultati sperati non sono arrivati subiti: gli effetti sono lunghi, bisogna lavorare con strategie dilazionate nel breve, medio e lungo periodo. Così le aziende e i loro consulenti hanno cominciato a credere che i social potessero essere utili solo con la pubblicità: un nuovo mezzo, niente di più. Ma è un grande errore pensare che la pubblicità sia l’unica opportunità offerta dai social media.

Forrest, nel descrivere le ragioni alla base della maggioranza degli errori fatti sui social e nell’indicare come le aziende dovrebbe usare le competenze social per rafforzare altre funzioni di marketing, descrive in realtà il nostro lavoro. Il che ci rende particolarmente orgogliosi. E i risultati che raccogliamo nel tempo non fanno altro che consolidare i dati divulgati dalla società di ricerca.

Le frecce all’arco del native advertising

cosa è il native ad

Qualcuno declina il native ad al maschile, qualcuno al femminile. Ma intanto, cosa è?
Nel 2013 lo IAB fornisce una prima definizione: “Il native advertising fa riferimento ad annunci a pagamento coerenti con il contenuto della pagina, con il design e il comportamento della piattaforma in cui sono ospitati, in modo che l’utente li percepisca semplicemente come parte di essa”. O, per dirla con Dan Greenberg, CEO di Sharethrough, uno dei primi ad utilizzare il termine, è “un tipo di media integrato nel design e dove gli annunci pubblicitari sono parte del contenuto”. Secondo Ian Schafer, CEO di Deep Focus, è una nuova versione degli advertorial, “pubblicità che sfrutta una piattaforma nel modo in cui questa viene usata dagli utenti”.

come e perché si sta sviluppando 

Semplificando, è un contenuto sponsorizzato promosso e visualizzato all’interno dei contenuti offerti al lettori. Per semplificare ulteriormente, è la naturale evoluzione di pop up e altri push che hanno aperto il web alla pubblicità. Ma, a differenza della pubblicità tradizionale che ha l’obiettivo di “distrarre” il navigatore dal contenuto, il native advertising ha l’obiettivo di “immergere” la pubblicità all’interno del contesto. Lo scopo nel progettare e realizzare campagne pubblicitarie native non è solo attrarre l’attenzione dell’utente, ma creare un vero e proprio engagement, nel senso più puro del termine: coinvolgere. La caratteristica fondamentale della pubblicità nativa è di non interrompere gli utenti che stanno leggendo/consultando una pagina: il messaggio pubblicitario assume le stesse sembianze del contenuto diventandone parte con l’obiettivo di catturare l’interesse dei lettori.
Il paradigma che regge la filosofia del native ad è molto semplice: se un utente legge il testo di una pagina web significa che è interessato all’argomento, e dunque è molto più facile che sia interessato anche alla pubblicità, se questa ne è parte integrante. Direte voi: allora è un pubbliredazionale che si trasferisce dalla carta al web. E invece no: la tecnica della pubblicità nativa è quella di fondere il contenuto e i messaggi pubblicitari all’interno del contesto editoriale in cui la si colloca, proprio come succede per i pubbliredazionali, ma esplicitandone la natura. L’inserzionista non camuffa la pubblicità come se fosse un articolo (tecnica talmente abusata da trasformare il commerciale delle grosse realtà editoriali in redazioni parallele, ma soprattutto da rendere sempre meno credibili anche gli articoli che pubbliredazionali non sono, se spingono un brand o un’azienda).

il native ad vive tra noi

Le principali forme di pubblicità nativa, ci compaiono più volte al giorno: i true view di YouTube, i tweet e i post sponsorizzati. L’attenzione verso la pubblicità nativa è sempre più forte: i branded content conquisteranno sempre più spazio nel tentativo di aiutare le aziende a vendere in modo innovativo i loro prodotti o servizi, e i siti ospitanti a trovare finalmente una fonte di revenue interessante ed innovativa? Se le attese del vasto mondo del web mkt diventeranno realtà, questo modello metterà a dura prova la capacità del lettore di riuscire a distinguere i contenuti editoriali da quelli pubblicitari, ammesso che questa separazione importi ancora.
Non dimentichiamo il “banner blindness“, la “cecità da banner”: chi è abituato ad utilizzare il web ha una maggior capacità di identificare gli spazi pubblicitari contenuti nelle pagine consultate, il che fa sviluppare una sorta di indifferenza nei confronti della pubblicità, rendendola completamente inefficace. La banner blindness aumenta in modo esponenziale, e rende sempre meno efficaci le pubblicità incapaci di stimolare l’interesse del target al quale ci si rivolge. Il native advertising, la pubblicità nativa, permette invece di bypassare tale problematica: il contenuto sponsorizzato viene immerso all’interno del contenuto editoriale di pari argomento, aumentando la reach del messaggio.

ma funziona?
Secondo uno studio pubblicato su American Behavioral Scientist i consumatori stanno diventando sempre più propensi ad accettare formati di pubblicità nativi. Certo, oggi si parla di grandi brand e geolocalizzazioni specifiche. Ma il media è globale, e tale dovrà essere anche, di conseguenza, l’incidenza positiva della pubblicità nativa.

I native ad, infatti, non respingono i consumatori come succede con pubblicità più intrusive. Il banner standard nell’header o nella barra laterale a destra non sono più efficaci: ne traggono benefici i proprietari di siti web che possono vantare grandi numeri di page view, ma il ritorno effettivo per l’azienda è sempre più prossimo allo zero. I pop-up e i formati full-page overlay infastidiscono i consumatori, mentre gli annunci nativi si fondono con il contenuto della pagina in un modo che li rende non intrusivi. I consumatori non sono stupidi, sanno che si tratta di pubblicità (anche perché viene chiaramente contrassegnata come tale), ma, come spiega John Rampton, “il motivo per cui le persone preferiscono annunci nativi è perché offrono informazioni fortemente legate ai contenuti che stanno consultando in quel momento, e questo aiuta l’inserzionista a stabilire un rapporto di fiducia quasi immediato con il consumatore. Poiché la pubblicità nativa viene percepita come contenuto di qualità superiore, generalmente si assiste ad un tasso di  conversione superiore”.

Da quanto traspare dagli studi di settore, le pubblicità native portano un’audience di maggiore qualità, applicando nel migliore dei modi il concetto di “meglio la qualità che la quantità”. Non importa più il numero di visitatori che una campagna porta a un sito: quel numero da solo è inutile, senza un buon tasso di conversione. La domanda giusta è: quanto di quel traffico si è convertito in vendite generando effettivo utile? Gli annunci nativi permettono di attirare traffico di qualità molto più elevata (e dunque un maggiore feedback) perché permettono un targeting più perfezionato: chi clicca sull’annuncio è molto spesso realmente interessato a ciò che viene offerto. Meglio attrarre 100 visitatori da un native ad posizionato all’interno di contenuti di grande rilevanza, o 1.000 visitatori provenienti da una serie casuale di siti web? La curva costi/benefici è ben diversa. Anche perché gli annunci nativi hanno, almeno per ora, un costo per acquisizione inferiore.

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